Biografie filosofiche: Alejandro Gordillo-García, “Nuovo usuario che accede al sistema operativo del pensiero”
21 Gennaio 2025Dietro ogni filosofo/a c’è una persona che, come chiunque, prende decisioni per la propria vita. Ma attraverso quali percorsi avviene la decisione per la filosofia, un’attività che non sembra aver mai garantito grandi guadagni né riconoscimenti? In che modo la filosofia si intreccia alle storie delle nostre vite?
Queste domande hanno trovato spazio e voce nel congresso internazionale Filosofia tra (auto)critica e trasformazione, che si è tenuto dal 4 al 6 dicembre 2024 all’Università di Padova.
L’idea di fondo era esplorare collettivamente il complesso groviglio di traiettorie personali, esigenze teoriche e condizioni materiali in cui si svolge oggi il lavoro del/la filosofo/a. Con questo proposito in mente, una sezione è stata dedicata alle Biografie filosofiche. Le persone invitate hanno risposto a queste quattro domande:
- Perché hai deciso di dedicarti alla filosofia (come studio e/o professione)?
- C’era/ c’è un problema teorico che rappresenta per te una sfida particolare e a cui hai dedicato parte della tua ricerca? Come sei arrivato/a a metterlo a fuoco e svilupparlo?
- Quali ostacoli hai incontrato nel tuo percorso filosofico? Hai mai avuto l’impressione che alcuni di essi fossero legati al genere, alla tua provenienza, all’età o ad altri fattori specifici della tua soggettività?
- Che cosa cambieresti del modo in cui si fa filosofia oggi in accademia?
Condividiamo la “biografia filosofica” di Alejandro Gordillo-García.
Questo studioso inizia mettendo in discussione il concetto stesso di “biografia” e conclude sostenendo che i frutti del lavoro filosofico non dovrebbero essere proprietà di enti commerciali, ma prodotti potenzialmente accessibili a tutta l’umanità.
Qualche parola in più su di lui. È ricercatore post-doc presso l’Università di Padova, specializzato in filosofia delle scienze biologiche. Durante il dottorato di ricerca alla KU Leuven si è concentrato sugli aspetti filosofici della teoria evolutiva culturale. Il suo lavoro attuale mira a chiarire vari aspetti concettuali e metodologici nella pratica scientifica di ricostruzione dell’evoluzione di diversi tratti umani.
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1. Perché hai deciso di dedicarti alla filosofia (come studio e/o professione)?
Prima di addentrarmi nella mia biografia, vorrei fare alcune precisazioni e introdurre il discorso con alcune riflessioni.
Pensiamo a un organismo, qualunque organismo, da una cellula a un essere umano. Nel corso del tempo, la vita di ciascun organismo si apre a possibilità potenzialmente infinite a ogni svolta. Non può essere altrimenti: dai livelli quantistici a quelli macroscopici, esiste un’enorme complessità a ogni livello di organizzazione. Inoltre, se si aggiungono le straordinarie e intricate interazioni tra l’organismo e l’ambiente, la vita risulta plasmata da una rete di cause che funziona come un groviglio di eventi impossibile da afferrare per la mente umana.
Quando raccontiamo una biografia, però, facciamo qualcosa di molto peculiare. Riduciamo tutte quelle possibili ramificazioni che si sono presentate in diversi momenti a una sola storia. Questa storia ci fa apparire ogni passo come ordinato, prevedibile, a volte bello, a volte deliberato, provocatorio, interessante, unico.
Pertanto, una biografia – qualsiasi biografia – contiene inevitabilmente delle falsità. Alcuni aspetti sono esagerati, mentre altri, che non si adattano alla storia che vogliamo raccontare, sono minimizzati o omessi. Di solito li costruiamo in modi che ci permettono di proiettare un’immagine di noi stessi in linea con i nostri valori, aspirazioni e le norme culturali del nostro contesto. Questo processo non è necessariamente consapevole, ma una conseguenza dei nostri limiti come esseri finiti, unita alla nostra ostinazione nel difendere il nostro ego da minacce percepite. Di fatto, le storie sotto forma di biografie spesso funzionano come meccanismi di difesa contro minacce esistenziali, come il sentimento di insignificanza o irrilevanza.
Esistono molti concetti legati a queste imprecisioni nella costruzione di una biografia, come il bias retrospettivo, il bias di conferma, il bias auto-favorevole, l’effetto di falsa unicità e molti altri.
Pertanto, le biografie sono in qualche misura illusorie, nel senso che non possono catturare tutta la verità e sono distorsioni della realtà. Sono intrinsecamente retrospettive: iniziano dal prodotto finale – noi stessi, in questo momento particolare – e lavorano a ritroso, componendo una storia che porta fino a questo punto. Ciò che pensiamo di essere, non lo siamo. Le ragioni che ci raccontiamo per spiegare come siamo arrivati qui non saranno mai completamente accurate.
Sto menzionando tutto questo perché, sebbene conoscere questi bias non li elimini, credo che ci metta comunque in una posizione migliore. Per esempio, essere consapevole di questi difetti mi ha aiutato a evitare di attaccarmi troppo a certe storie spesso narrate da chi spiega perché ha scelto di studiare filosofia, come: “Sono sempre stato affascinato dalle grandi domande fondamentali”, “Voglio migliorare il mondo”, “Mi sono sempre piaciute le argomentazioni e i dibattiti”, “Volevo studiare qualcosa senza matematica”, e così via.
Nulla di tutto ciò si applica a me, e onestamente dubito che si applichi davvero a qualcuno. Comunque, ecco cosa è successo nel mio caso:
Da adolescente, non c’erano segni evidenti della strada che avrei intrapreso. Non perché fossi disinteressato o apatico – tutt’altro. Forse, paradossalmente, ero interessato a troppe cose. Volevo studiare qualsiasi cosa attirasse la mia attenzione in quel momento. Un giorno era astrofisica, il giorno dopo antropologia; poi biologia, storia, neuroscienze, geologia o persino arte. Ero completamente confuso sul mio futuro, e ad essere sincero non mi sentivo preoccupato al riguardo.
Tuttavia, come molti, sono stato costretto a scegliere una strada. Ma la verità è che non volevo scegliere nulla. Da adolescenti, ci si aspetta che prendiamo decisioni che plasmeranno profondamente il nostro futuro, anche se il nostro cervello non è ancora completamente sviluppato. Ci hanno sottoposto a vari test attitudinali, ma ogni volta che ne facevo uno, ricevevo una risposta diversa.
Eppure c’era una cosa che sapevo per certo, e sono sicuro nel dirlo perché lo sento ancora oggi. Quello che sapevo era questo: volevo dedicarmi a qualcosa che ispirasse assoluta meraviglia. Non mi importa cosa sia, ma voglio quella sensazione che si prova quando ci si rende conto di essersi sempre sbagliati su qualcosa, o quando si trova una domanda che non ci si era mai posti prima.
Ecco, quindi, il contesto in cui mi trovavo: dovevo scegliere, ma non avevo idea di che cosa scegliere. Cosa avreste fatto voi in questa situazione? Come avrei potuto scegliere un solo campo tra tanti interessanti? Onestamente, non ne sono sicuro nemmeno oggi.
Non sapevo molto della filosofia. Sapevo solo che i filosofi salgono in alto per osservare e analizzare tutto da quella posizione. Questo è tutto ciò che sapevo. Poi ho scoperto qualcosa di interessante. Ho scoperto che c’erano rami come la filosofia della chimica, la filosofia della fisica quantistica, la filosofia della mente, la filosofia della biologia e la filosofia delle scienze sociali. C’è anche la filosofia della logica, la filosofia del linguaggio e persino la filosofia della filosofia.
Non sapevo esattamente di cosa trattassero queste aree, ma non riesco a descrivere quanto fossi entusiasta quando le ho scoperte. Improvvisamente, avevo trovato una soluzione al mio problema! Studiando filosofia, avrei potuto esplorare tutte queste discipline senza essere legato a una sola. La filosofia mi sembrava un sistema multiuso, come il test di Wikipedia, dove se continui a cliccare il primo link di qualsiasi articolo, finisci quasi sempre sulla pagina dedicata alla filosofia.
Ed è per questo che ho scelto di studiare filosofia. Ancora oggi, la mia motivazione per continuare a farlo rimane la stessa: “onorare la curiosità” (mettiamola in questi termini, ma ricordiamoci cosa ho detto prima sui bias e le distorsioni della realtà). Per me, la filosofia non riguarda il trovare risposte definitive, ma preservare una certa libertà intellettuale.
A differenza di altre discipline, non c’era un motivo particolare per cui ho scelto di studiare filosofia, e paradossalmente è proprio questa la ragione per cui l’ho scelta.
2. C’era/ c’è un problema teorico che rappresenta per te una sfida particolare e a cui hai dedicato parte della tua ricerca? Come sei arrivato a metterlo a fuoco e svilupparlo?
All’inizio, quando ho iniziato a studiare filosofia, non avevo un problema teorico specifico su cui desideravo concentrarmi. I miei interessi erano esplorativi. Tuttavia, con il tempo, alcune domande specifiche hanno iniziato a emergere. Ecco quelle fondamentali:
I. Uno sguardo dall’esterno del sistema
Una delle idee o sfide più intriganti per me è la possibilità di uscire dal sistema in cui siamo inseriti come Homo sapiens. Fisiologicamente, neuronalmente, culturalmente, siamo profondamente intrappolati nelle “cose umane”.
Ma ciò che si trova al di fuori di questo mondo umano è infinitamente più affascinante. Mi chiedo se sia veramente possibile uscire dal sistema per osservare le nostre prospettive, teorie e schemi dall’esterno.
Penso che questa sia una classica situazione di “fai attenzione a ciò che desideri”, perché una cosa risulta evidente: chiunque riesca a uscire dal sistema non può più tornare indietro. Per lasciare il mondo umano, si dovrebbe diventare non-umano. Se una singola formica volesse vedere il sistema della colonia dall’esterno, dovrebbe diventare qualcosa di molto più complesso – e quindi non sarebbe più una formica. Questa idea è assolutamente affascinante, ma anche terrificante.
Le aree della mia ricerca che tentano di avvicinarsi a questa direzione si concentrano sulla cognizione di gruppo e sull’evoluzione, che definisco in senso ampio come l’integrazione di molteplici sistemi cognitivi, naturali o artificiali, per creare qualcosa di più grande della somma delle sue parti. Quello che cerco di fare in filosofia della biologia è pertinente a questa sfida teorica, perché può fornire una spiegazione di come la complessità emerga da componenti più semplici, comprendendo meglio le principali transizioni nell’evoluzione. Ho provato a capire come i principi evolutivi si applichino a sistemi di livello superiore, come i sistemi culturali.
II. Perché la coscienza e l’autoconsapevolezza?
Mi pongo spesso la domanda: “Perché abbiamo la coscienza?”, “Si è evoluta come un tratto adattivo, oppure ha conseguenze che potrebbero essere maladattive?”
La coscienza ci permette di riflettere, immaginare, pianificare e così via. Ma ci grava anche con la consapevolezza della nostra mortalità, del nostro essere processi dispensabili e del nostro valore aggiunto pressoché nullo nell’universo. Il paradosso della coscienza è che, mentre ci spinge a riempire la nostra vita di significato, ci espone anche alla disperazione esistenziale. Forse l’una è la conseguenza dell’altra. “Perché un sistema dovrebbe evolvere un tratto del genere?”, “Qual è la storia naturale della coscienza?”
Se la coscienza emergesse in altri sistemi, questi sistemi affronterebbero le stesse sfide esistenziali che affrontiamo noi? La consapevolezza della loro natura finita diventerebbe una caratteristica distintiva della loro esistenza? La coscienza è un marchio di morte?
Non ho alcuna risposta quando si tratta di coscienza e della possibilità di uscire dal sistema umano, per questo sono al centro della mia curiosità. Oltre a questi temi, ci sono molti altri problemi teorici che mi interessano, ma li considero secondari.
3. Quali ostacoli hai incontrato nel tuo percorso filosofico? Hai mai avuto l’impressione che alcuni di essi fossero legati al genere, alla tua provenienza, alla tua età o ad altri fattori specifici della tua soggettività?
Questa è stata la domanda più difficile a cui rispondere. Non credo di aver mai incontrato ostacoli significativi nella mia carriera. Può sembrare sorprendente, ma è vero. Sono stato abbastanza fortunato da avere un percorso accademico relativamente fluido fino ad ora.
Questo non significa che il percorso accademico sia facile. Tuttavia, almeno nel mio caso, non penso di aver affrontato ostacoli degni di essere menzionati. O almeno è ciò che penso. Devo ammettere che tendo a credere che il pensare di avere ostacoli sia di per sé un ostacolo. Quindi non lo so davvero. Forse ciò che considero un percorso fluido potrebbe essere visto diversamente da un’altra prospettiva.
4. Che cosa cambieresti del modo in cui si fa filosofia oggi in accademia?
Per fortuna, questa domanda riguarda il “cosa” e non il “come”, quindi è più facile rispondere.
A. Protocolli di interazione
Ho avuto la fortuna di poter immergermi in comunità di altre discipline e di apprendere come lavorano. Una delle cose più interessanti che ho osservato è il modo in cui i membri di queste comunità interagiscono fra loro. La comunità che mi ha colpito di più è quella dei fisici quantistici e degli scienziati informatici. Ovviamente, non tutti si comportano allo stesso modo, ma molti di loro mostrano un’apertura e una spontaneità straordinarie quando si tratta di discutere idee. Non si preoccupano dei protocolli formali.
Ad esempio, immaginiamo di avere una breve conversazione con qualcuno durante una conferenza, e quella persona è intrigata da qualcosa che abbiamo detto. Nel giro di pochi giorni – o talvolta anche ore – potremmo ricevere da lei una lunga email caotica, piena di entusiasmo per le idee emerse dalla discussione. Queste email sono spesso disordinate; non credo nemmeno le rileggano prima di inviarle. L’obiettivo principale è il puro entusiasmo per lo scambio di idee, scientifiche o filosofiche. Puoi rispondere con un’email altrettanto lunga e caotica, e il dialogo continua.
Questo va oltre le email. Fanno sessioni alla lavagna con te, ti introducono ad altre persone, discutono idee ovunque: nella metro, al pub, persino in bagno. Non importa.
Non è implicato un interesse materiale, non cercano necessariamente collaborazioni. È come se la forza e il fascino delle idee fossero più potenti di qualsiasi protocollo, tanto che ignorano qualsiasi cosa possa essere una limitazione.
Ho cercato di adottare questo approccio nella comunità filosofica, ma è stato difficile trovare qualcuno che si impegnasse con le idee allo stesso modo. Ad esempio, ho inviato lunghe email dettagliate menzionando idee che mi entusiasmano, ma le risposte – se ne ricevo – sono spesso brevi e formali, senza lasciare spazio a una prosecuzione della discussione. Trovo che la filosofia sia troppo formale. Per quanto mi riguarda, i migliori scambi intellettuali non sono mai avvenuti durante sessioni di lettura in gruppo o discussioni in conferenze. È sempre al di fuori di questi contesti formali che emergono le idee più affascinanti, e alcuni scienziati lo sanno bene.
Quindi, questo è qualcosa che mi piacerebbe cambiare nel modo in cui si fa filosofia oggi nel mondo accademico.
B. Gaming the system
Gli standard per avanzare nella carriera accademica, come il numero di pubblicazioni, l’h-index, il prestigio delle riviste e le relazioni politiche, sembrano ragionevoli come indicatori di produttività e incidenza. Tuttavia, il problema di questi standard è che non sono correlati in modo stretto con la qualità del lavoro prodotto.
Secondo molti modelli, e credo sia facile confermarlo con la nostra esperienza, questa situazione favorisce e incoraggia la manipolazione del sistema (“gaming the system“). Nel caso in cui non abbiate familiarità con il termine, “gaming the system” si riferisce all’atto di sfruttare le regole o i processi di un sistema per ottenere un vantaggio personale in modi che minano lo scopo o l’integrità del sistema stesso.
Alcuni esempi in accademia, e in particolare in filosofia, sono la produzione di molti articoli di bassa qualità o ridondanti (il cosiddetto “salami slicing”), politiche di reciproco favore (“io gratto la tua schiena, se tu gratti la mia/ I scratch your back if you scratch mine”), pubblicazioni in riviste con standard più bassi per accettazioni più rapide o facili, l’auto-citazione eccessiva, la creazione di cartelli di citazioni o persino cartelli di conferenze. Non credo ci sia qualcuno da incolpare; sembra più un caso della tragedia dei beni comuni. Tuttavia, è qualcosa che vorrei veder cambiare. Anche se è necessario valutare le persone nell’accademia, credo che gli standard attuali stiano compromettendo l’integrità e la qualità dei nostri campi.
C. Il mio lavoro non è vostro, ma dell’umanità!
Infine, un’altra questione che trovo profondamente disturbante è il fatto che di solito le riviste accademiche possiedano i diritti d’autore dei testi che pubblicano e poi facciano pagare prezzi ridicolmente elevati per accedervi. Perché? Questo è assolutamente ingiusto. Non riesco a tollerare che il mio lavoro – frutto di sacrifici, sforzi, momenti di dubbio e immense fatiche – finisca per essere di proprietà di enti commerciali. Sono io che ho affrontato le sfide, che ho investito energia nel pensare. Il lavoro è il mio, e credo che dovrebbe essere accessibile gratuitamente a tutti.
Questa non è una questione di riconoscimento, diritti o benefici monetari. Credo che il lavoro che faccio come studioso appartenga all’umanità. Se l’umanità decide di dimenticare il mio lavoro, così sia – ma preferirei di gran lunga che fosse dimenticato piuttosto che non raggiungesse affatto l’umanità.
